Da “L’ISOLA” n°44, Anno VII, Maggio 2009
Nel Medioevo, i mercanti amalfitani che navigavano verso i porti del Mediterraneo appresero dagli arabi il metodo di lavorazione della carta più a buon mercato della pergamena. Regnanti e papi, notai e storici l’usarono per i loro documenti. Il segreto della produzione tramandato oralmente. L’impresa di don Luigi Amatruda che riprese l’antico lavoro artigiano dopo gli anni della crisi. La cartiera nella Valle dei Mulini e la sfida vinta con Fabriano. La carta a mano di Amalfi usata per grandi opere editoriali di qualità.
Rincorrere sogni di vacanze colme di sole e mare, lungo itinerari della memoria e luoghi da sogni come la Positano di Steimbeck, Leonide Massine, Franco Zeffirelli e la Ravello di Ferdinand Gregorovius, Richard Wagner, Gore Vidal. Dire Amalfi, per i più colti, è riandare ai fasti dell’antica Repubblica Marinara che seppe intrattenere rapporti commerciali e diplomatici con i paesi arabi, in momenti di grandi tensioni tra la cristianità e il mondo islamico, dando al popolo dei nauti “regole” precise rubricate come “Tabula de Amalpha”. Ma Amalfi non è solo questo né è solo produzione di quel limone leggero e succoso denominato “sfusato”, che signoreggia su per i tanti maceri sovrapposti gli uni agli altri in armoniosa ascesa verso le cime dei Monti Lattari. Amalfi è anche lavorazione dell’antica carta a mano, chiamata “bambagina” perché vellutata al tatto, fatta di pura cellulosa, morbida come la pelle di un bambino. La sua origine affonda nel Medio Evo, all’epoca in cui i mercanti della Repubblica solcavano i mari con i loro “legni” e frequentavano i porti arabi del Mediterraneo. E dagli arabi appresero il metodo di lavorazione della carta, intuendo subito quanto valore ci fosse in questo prodotto così diverso e così più a buon mercato della pergamena, allora in uso. Fu così che da Amalfi i fogli della pregiata “bambagina” partivano per le più svariate destinazioni, tanto che ancora oggi in numerosi archivi europei è possibile trovare preziosi manoscritti redatti su carta a mano di Amalfi. Un prodotto di cui si sono serviti regnanti e papi, notai e storici per stilare i loro atti più importanti. Il suo abuso nel 1220 indusse Federico II a inserire nelle decretali un divieto assoluto alle Curie di Napoli, Sorrento e Amalfi ad usare la carta bambagina per gli atti pubblici. Una serie di fattori avversi privò Amalfi di questa tradizionale produzione, tanto che nell’ultimo dopoguerra nella città costiera non era rimasto un solo artigiano a produrre questa preziosità. Molti cartai amalfitani, infatti, erano emigrati altrove, lì dove riuscivano meglio a sviluppare il loro antico mestiere. Un’arte, anzi, di cui non erano mai state documentate le tecniche e i segreti, tutto affidato ad una tradizione orale, gelosamente custodita e tramandata solo da padre in figlio. Cosa che provocò non poche difficoltà e soprattutto enormi sacrifici a don Luigi Amatruda, amalfitano doc, quando decise di riprendere l’antica lavorazione. Furono ben trent’anni di ricerche, di esperimenti prima di giungere al soffice, paglierino e delicato foglio di carta. Il problema, infatti, era innanzitutto far sì che la poltiglia di cellulosa potesse aggregarsi e restare compatta, poi bisognava avere i macchinari capaci di produrre un foglio per volta. Alla fine don Luigi Amatruda riuscì nel suo intento. La produzione di questa particolare carta non è un fatto meramente economico. “E’ principalmente una questione di cultura” dice Antonella Amatruda, figlia di don Luigi e continuatrice di una attività svolta soprattutto per vocazione. Negli antichi locali della cartiera, posta sul finire settentrionale della Valle dei Mulini, il lavoro si svolge sul filo della tradizione, da quando la cellulosa viene sciolta nelle grandi vasche sino alla pesca del telaio nel grande tino e alla revisione dei fogli, uno per uno, fatto da mani gentili, perché non abbiano a sciuparsi, né presentino imperfezioni di sorta. Intorno agli anni Ottanta del secolo appena trascorso, vi fu una vivace polemica tra Amalfi e la notissima Fabriano su chi avesse il primato della carta a mano. La “battaglia” si risolse a favore di Amalfi e Fabriano si inchinò di fronte alle evidenze storiche. Parlando di primato, resta alla famiglia Amatruda quello di aver ripristinato l’antica lavorazione e produzione che oggi raggiunge, nella maggior parte, il mercato editoriale, lasciando al minuto le piccole chicche dei fogli per lettere o dei bigliettini da visita, riservati esclusivamente ad una rara clientela amante di ricercatezze. Oggi la carta a mano di Amalfi rappresenta un prodotto di nicchia per il settore artigianale, anche se la sua produzione viene sempre più richiesta per opere editoriali impegnative e mirate, volutamente numerate e riservate a pochi cultori di raffinati prodotti a stampa. “Una mattina – racconta la signora Rosa, moglie di don Luigi – giunse in cartiera un signore che disse di essere della casa editrice “Edizioni dell’Elefante” e chiese notizie sulla nostra carta, la nostra produzione e ritirò alcuni campioni”. Qualche mese dopo alla Cartiera, dalle edizioni dell’Elefante giunse un ordinativo di 60 mila fogli di carta a mano di Amalfi del formato 50 per 70. Quei fogli servirono per la stampa dell’Eneide di Virgilio, tradotta da F.M. Pontani con un saggio di T.S. Eliot e dodici illustrazioni originali di Renato Guttuso. Un’opera di sicuro prestigio per la quale si voleva adoperare la bambagina amalfitana. Per un’officina artigiana produrre tutta quella carta fu un’impresa. “Per tre mesi si lavorò solo per questo – ricorda ancora la signora Rosa – e alla fine dovemmo cari care un camion per spedire tutta la carta”. Era il 1969 quando nelle officine Bodoni di Verona venne licenziato il volume “Drunk Man Looks at the thistle” edito da G. Mardersteig. Erano 144 pagine di carta a mano avorio amalfitana prodotta dalle cartiere di don Luigi Amatruda, stampate in lingua gaelica. Quel volume era l’arrivo e la partenza, la sintesi del lavoro e dei sacrifici, delle delusioni e delle speranze. Era il primo volume stampato su quella carta amalfitana per la quale don Luigi aveva speso trent’anni di ricerche. Mardersteig era un editore dai gusti difficili e le sue erano sempre produzioni ricercate. Basti pensare che nel 1964 aveva edito un volumetto di poche pagine, stampato in 51 esemplari con torchio di legni di Gunter Boehmer. La casa editrice Marotta di Napoli adoperò questa carta a mano per stampare mille esemplari del canzoniere del Petrarca con le note critiche di Leopardi. Ad aprire le immaginarie antine della biblioteca Amatruda c’è di che restare sbalorditi nello scoprire quante preziosità editoriali vi sono conservate. Illustrarle tutte è praticamente impossibile, ma alcune vanno citate. E’ della seconda metà degli anni ’70 l’interessamento delle officine Tallone di Alpignano che usano la carta di Amalfi prima per “Priére sur l’Acropole” di Renan e, subito dopo, per l’opera più importante delle edizioni, “Il Corano” composto a mano con caratteri Caslon Elzévir per il testo e carattere Tallone per le note bibliografiche. Il volume fu tirato in 565 esemplari di cui 5 su carta Japan Hodamura Teinté e numerati in cifre romane, 160 su carta al tino di Amalfi e 400 su carta ventura di Cernobbio. Seguirono poi altre opere tra cui “Poesie Classiche”, dieci fogli sciolti raccolti in cofanetto con poesie di Foscolo, Leopardi, Angiolieri. Le edizioni Grimaldi e Cicerale pubblicarono “La villa di Chiaia e il Palazzo Cellammare” di Benedetto Croce e “La Capri magica” di Ada Negri, con dieci disegni di Letizia Cerio. Una delle opere più belle in carta di Amalfi è certamente la stampa anastatica del volume del 1789 di Ferdinando IV, re delle due Sicilie, su “Origine della popolazione di San Leucio”. Il volume, che riporta la storia dell’antico centro casertano di produzione serica, è rilegato in seta blu imperiale di San Leucio. Ma l’opera più importante sinora realizzata in carta a mano di Amalfi resta la già citata “Eneide” di Virgilio, delle Edizioni dell’Elefante. Anche Pietro Annigoni fu rapito da questa carta, tanto da chiedere alle cartiere di tirare un certo numero di fogli, con la sua firma in filigrana, sui quali realizzò “Le leggende ovidiane” delle edizioni Eldec, in 850 copie firmate e numerate. Il 3 gennaio 1987 giunse in cartiera Giorgio Forattini che, dopo aver comprato alcuni fogli di carta a mano, sul libro degli ospiti tracciò una vignetta riproducente il senatore a vita Giulio Andreotti con paramenti episcopali e la scritta: “Questa carta mi illumina, ma io resto sempre l’Eminenza grigia”.
scritto da Vito Pinto